In principio – parliamo degli anni ’40 del secolo scorso – fu Walker Evans a fotografare le immobili interazioni di una massa di passeggeri
che ogni giorno per spostarsi si serviva della metropolitana di New York. Qui, a bordo di carrozze veloci come un desiderio, le persone
“abbassavano la guardia e toglievano la maschera” per dare vita a una momentanea affollata solitudine, stabilendo una distanza umana pari
soltanto a quella che la divide dalla destinazione. Un universo, notturno, dove le voci della “città sopra” sono sommerse dallo stridore
di treni, da frammenti di conversazione interrotte dallo spalancarsi di porte che fagocitano i passeggeri con la stessa avidità con cui
li espelle. In “Subway Life Forms” i passeggeri non abitano più sul treno, sono scesi o forse stanno per salirvi – non lo sappiamo,
rimandando la questione alla misteriosa e ambigua natura della fotografia – ma di certo ognuno di essi ha una ragione per attraversarne
gli ambienti. Egon Topo ne segue i passi, accompagnandoli eppur brevemente lungo l’estraniamento dell’attesa o nella fretta del daffare.
La sua è un’umanità in transito, bloccata dall’obiettivo e consegnata a dialogare momentaneamente con la geometrica spazialità di un “luogo
a perdere”, dove per questa locuzione si deve intendere uno spazio privo di interazione tra sé e l’ambiente. L’obiettivo di Egon Topo
tuttavia è sensibile e la sua ricerca non è mai disgiunta dall’impegno di un rigore formale che nella descrizione dei dettagli (il primo
piano della pavimentazione, le ripidità scoscese delle scale meccaniche, un’ombra) trova la conclamazione di un racconto che nell’allusione
ha la sua chiave di lettura e da cui apprendiamo come la crisi progettuale di uno spazio destinato al transito, all’utilizzo distratto,
sia risolta a vantaggio dell’uomo grazie all’attenzione architettonica posta dai progettisti. L’uomo dunque, sebbene rimanga la
disconnessione dai suoi simili, torna al centro anche nelle viscere della città. Le fotografie di “Subway Life Forms” raccontano
questo. E con una fresca rapidità non intaccata da nessuna manipolazione digitale: quello che vediamo non è che la trasposizione di quanto
ha visto il fotografo. E’ dunque alla sapienza tecnica – particolare che se però è disgiunto da una visione poetica non conduce a nulla –
che stavolta occorre celebrare, quasi che Egon Topo, nel timore di una cattiva traduzione, avesse desiderato omaggiare quella che Walter
Benjamin chiamava “la compostezza del reale, che nessun artificio tollera per spiegare se stessa”, offrendoci momenti di realtà, certo
declinati secondo la sensibilità del fotografo, ma nella cui “riconoscibilità” cogliamo la sincerità di una trasmigrazione concettuale
che all’osservatore giunge intatta. Le immagini di “Subway Life Forms”, siano esse a colori che in bianco e nero colpiscono per il
loro rigore formale, per una composizione ricercata. Ma non solo, fin qui il rischio di un lavoro “freddo” sarebbe immanente. Egon Topo
fa di più, aggiunge qualcosa, un elemento che si avverte già alla prima osservazione: empatia. Infatti di ognuno dei passeggeri, di
chiunque sia stato “fermato” nelle sue immagini ci chiediamo degli interrogativi, quasi fossimo incuriositi delle loro storie e delle
ragioni per cui transitavano da quelle parti. Questa è la creazione dell’empatia, una specie di miracolo che solo un buon lavoro sa
produrre.
Thanks to Giuseppe Cicozzetti and Scriptphotography